Rituffiamoci nel mondo caldo e colorato, esotico,
dell’antico Egitto col secondo volume di La città d’ottone, Il regno di rame. A
distanza di tanto tempo, ritornare nel mondo creato dalla Chakraborty è
stato abbastanza faticoso: chi si ricordava tutti i cinquemila nomi di tutte le tribù presenti nel romanzo?
Come nel precedente, anche qui il romanzo è strutturato in tre punti di vista. Il primo è quello
di Nahri, la nostra protagonista dai poteri magici che usa al fine di guarire
la popolazione di Daevabad, dove ormai è
rimasta da sola coi suoi nemici. O meglio, col suo nemico: il re Ghassan, colui
che governa il regno che in passato apparteneva alla tribù di Nahri e che, per
controllarla, la obbliga a sposare suo figlio Muntadhir. Nahri, da brava
truffatrice e bugiarda, accetta tutto ciò col fine di riuscire, prima o poi, a
trovare quella falla che possa condannare Ghassan e liberare dalle ingiustizie
tutti quei popoli che subiscono le sue angherie.
Il secondo punto di vista è quello del principe Alizayd,
fratello minore di Muntadhir, ormai
esiliato via da Daevabad da suo padre, che non accetta le nuove “condizioni” di
suo figlio. Dopo un feroce scontro a fine libro di La città di ottone, infatti, Alizayd era “rinato” con nuove
capacità fuori dal normale, capacità che la sua famiglia vede come orrori e rinnega
il ragazzo come mostro e traditore.
L’ultimo è quello di Dara, il guerriero centenario dal
passato tormentato, che pensavamo fosse morto nel primo volume e invece *rullo
di tamburi* no! Capace, adesso, di trasformarsi in un essere terribile e
potentissimo, si appresta a tornare a Daevabad per uccidere il re Ghassan e
tutti i suoi fedeli, e salvare la sua amata Nahri.
Cazzo. […] Sei proprio tu. Solo tu puoi ritornare dalla morte una
seconda volta e dare immediatamente il via a un’altra stramaledetta guerra.
Anche in questo romanzo, l’autrice usa la tecnica del “salto
temporale” per rendere la trama più “credibile”, ma sinceramente, come nell’altro
volume, fa perdere tante piccole parti al lettore che poi non capiscono bene
come alcuni rapporti siano evoluti. Ad esempio, quello tra Nahri e Muntadhir, dove
avevamo lasciato il ragazzo che sembrava odiare, disprezzare, Nahri, e lo
ritroviamo ora farfallone e quasi “adorante”. Stessa cosa era successa in La città di ottone, col rapporto tra
Nahri e Dara.
Mi è molto piaciuta, invece, la caratterizzazione di Alizayd
e il suo percorso verso l’accettazione della sua nuova vita. Da guerriero
destinato a vivere al fianco del fratello, per proteggerlo e difenderlo, ora
deve costruirsi una nuova vita partendo da zero, cercare di capire questi nuovi
poteri che non desiderava affatto, e venire a patti con l’idea che quella che
considerava la sua amata famiglia ormai lo vuole morto.
Non so come piegarti. […] Ti ho minacciato, ho ucciso i tuoi alleati
shafit, ho bandito tua madre, ho lasciato che ti inseguissero gli assassini… e
tu ancora mi sfidi.
Gli intrighi politici
fanno da padrone all’intera narrazione, e sono la colonna portante di questa
storia, rendendola affascinante e coinvolgente (una volta chiariti, nella propria mente, tutti i nomi delle
popolazioni!).
Davvero noiosa e ridondante la parte di Dara, per quanto mi
riguarda, sempre con gli stessi problemi e filosofia di vita, morali infinite e
persone da uccidere. Purtroppo anche il personaggio di Nahri non mi convince,
non riesco a entrarci in sintonia, per quanto mi piaccia il suo rapporto con
Alizayd. Non lo capisco, ecco, è troppo fumosa, né carne né pesce.
Carino Muntadhir, con le sue battute ironiche, che regala
quella parte LGBT alla storia; e da oscar il re Ghassan per la sua parte da “cattivo
senza cuore”.
I colpi di scena… prevedibili e senza entusiasmo. Sinceramente speravo in qualcosa di molto di più, ma tutto sommato è stata comunque una storia abbastanza coinvolgente da spingermi a leggere il prossimo e ultimo capitolo. Incrociamo le dita!
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